Centinaia di persone provenienti da tutta Italia si sono ritrovate domenica scorsa al Maschio Angioino di Napoli nell’ultima assemblea nazionale verso la mobilitazione del prossimo 23 marzo a Roma per la giustizia climatica e contro le grandi opere. L’appuntamento segue quelli di Venezia, della Valsusa e di Roma, che hanno sostanziato un cammino comune intrapreso da tantissimi comitati e movimenti che si battono contro la devastazione ambientale e climatica dei territori e del pianeta.
Difficile restituire in un report la ricchezza e la complessità espresse nell’assemblea nazionale di Napoli.
Il primo dato che è emerso con una forza che ha sorpreso tutte e tutti è stata l’enorme partecipazione di realtà meridionali che, fino a questo momento, ancora non avevano trovato un’occasione di raccordo al percorso nazionale che ormai da mesi si muove per la costruzione della Marcia per il clima, contro le grandi opere e la devastazione ambientale: un percorso iniziato lo scorso autunno a Venezia, proseguito a Venaus, poi a Roma e che ha trovato a Napoli l’ultimo momento plenario di discussione in vista del 23 marzo.
Difficile riassumere per titoli quanto è stato discusso nella prima parte dell’assemblea, in cui si sono scambiate la parola tantissime esperienze di resistenza e resilienza meridionali: dalle donne della Terra dei Fuochi ai comitati contro le trivelle; da chi si batte contro l’eolico selvaggio ai presidi che difendono i territori dalla militarizzazione; dalle studentesse e gli studenti uniti nel percorso di Friday For Future ai medici di base che con tenacia portano avanti ricerche sul rapporto tra salute e ambiente; dagli agricoltori agli allevatori; passando per le tante storie che – nel nostro paese – parlano di lutti personali, devastazioni dei territori, emigrazione forzata, ingiustizia spacciata per sviluppo. Dalla Sardegna alla Sicilia, dalla Basilicata alla Puglia, all’Abruzzo, al Molise, passando per le testimonianze degli attivisti e delle attiviste campane da sempre in lotta contro il biocidio che hanno avuto l’onore e l’onere di coordinare i lavori.
A questi racconti di dignità e resistenza quotidiana del Sud, cui è stata dedicata l’apertura dei lavori a Napoli, si sono ovviamente raccordate le proposte e le prospettive di tutte e tutti quelli che hanno raggiunto l’assemblea da tutto il paese. Anche in questo caso, difficilissimo fare una sintesi anche solo per titoli: attivisti antidiscarica, coordinamenti contro le grandi opere inutili, reti contro la turistificazione selvaggia e la svendita dei territori al terziario avanzato; lavoratrici e lavoratori di fabbriche e centri di produzione inquinanti, movimenti per il diritto all’abitare, attiviste transfemministe, movimenti a difesa dell’acqua pubblica, esperienze di autorganizzazione delle comunità migranti che hanno rimesso al centro del dibattito la questione dei profughi climatici come vero cuore delle migrazioni contemporanee.
Un dato di partecipazione che non sorprende solo quantitativamente, né solo per la testimonianza di radicamento e resistenza in un mondo in cui la barbarie sembra avanzare senza più ostacoli, ma soprattutto per la maturità del ragionamento e la capacità di analisi: ormai è chiaro a tutti che ciò a cui ci opponiamo è una tendenza globale che pone direttamente al centro l’incompatibilità tra l’attuale modello di sviluppo e la sopravvivenza della biosfera; tra capitalismo e vita.
Se in passato la controparte dei comitati poteva liquidare le esperienze di lotta e resistenza di base come NIMBY (not in my backyard), oggi la sfida dei cambiamenti climatici liquida a priori questa etichetta perché se tutti gli ecosistemi sono minacciati dal produttivismo scellerato, allora è chiaro che il ‘giardino’ che le realtà di base difendono dalla predazione è l’intero pianeta.
Il piccolo miracolo che, insieme a tante tanti, è stato già compiuto in questi mesi è, dunque, quello di essere riusciti a fare una cosa preziosa e non scontata: dare alle riflessioni, alle parole d’ordine, agli strumenti di lotta delle realtà che difendono i mille territori sotto attacco del nostro paese un respiro comune.
Non era una cosa ovvia, non è una cosa che va da sé. L’Italia, in questo senso, rappresenta sul serio un unicum globale, anche solo a voler considerare la quantità di comitati di base che – nelle proprie comunità – da anni portano avanti laboratori politici di sperimentazione di nuova democrazia. Proprio questa ricchezza, paradossalmente, rischiava di produrre una sfasatura tra le mobilitazioni del nostro paese e quanto sta avvenendo nel resto del mondo. Le battaglie contro il cambiamento climatico sono oggi infatti lo spettro che si aggira per il globo, traducendo con forza, nelle piazze, nelle strade di tutto il mondo un’idea semplice e necessaria: non possiamo cambiare pianeta, dobbiamo cambiare il sistema. In Italia è stato più complesso inscriversi in questo orizzonte di senso perché bisognava intrecciare due temporalità: quella breve delle accelerazioni globali dei livelli di attacco e dei dispositivi di resistenza; e la lunga, decennale temporalità del patrimonio storico dei percorsi dell’ecologismo e dell’ambientalismo radicale del paese.
Oggi, dal punto di vista dell’analisi, questo passaggio non è più un’ambizione, ma appare compiuto: è un dato di fatto, è una prospettiva d’analisi condivisa che deve diventare una prospettiva condivisa di lotta. Dire questo, ovviamente, non vuol dire trasferire il piano di opposizione politica su un livello così astratto da far sparire i nomi dei responsabili nazionali dello scempio che abbiamo di fronte: i governi precedenti e il governo in carica, unanimi come non mai nel favorire le grandi multinazionali e le lobby del cemento e dei rifiuti, sono i primi responsabili cui andare a chiedere conto per i danni fatti e per le promesse tradite.
Queste ultime settimane che ci separano dal 23 devono essere vissute con l’energia e l’entusiasmo che ci ha dato l’assemblea di Napoli, ma soprattutto moltiplicando gli sforzi: è ancora possibile raggiungere e coinvolgere tante e tanti, non semplicemente con i linguaggi dei movimenti d’opinione, ma provando a spiegare che anche i più piccoli laboratori di buone pratiche e resistenza quotidiana oggi possono e devono riconfigurarsi all’interno di uno spazio globale di attivazione. Solo in questo senso, infatti, potremo vivere la Marcia per il Clima per quello che è e deve essere: un momento di passaggio, una tappa importante di un percorso che però non è dell’ordine dell’evento, ma vive perché si appoggia sulle gambe forti che lo hanno portato avanti ormai da quasi un anno. Altri momenti punteggiano già l’orizzonte di questo percorso: il 15 marzo ci saranno le mobilitazioni territoriali del percorso studentesco Friday for Future; il 6 aprile ci rivedremo per un momento di bilancio e rilancio dopo la marcia; da più interventi emergeva l’ambizione di immaginare una giornata di mobilitazione a Sud per il 1 maggio; il 5 maggio un ulteriore momento di discussione pubblico meridionale a Rende/Cosenza; 4-8 settembre, in contemporanea con la Mostra del Cinema, sarà possibile costruire un Climat Camp europeo presso il Lido di Venezia.
Per quanto riguarda il corteo del 23 marzo, abbiamo la sicurezza del luogo del concentramento, Piazza della Repubblica, alle 14. Il percorso sarà confermato la prossima settimana. L’assemblea ha convenuto che il corteo debba essere aperto da una testa che sia rappresentativa dei tre claim contenuti nel titolo. Il tema dell’opposizione al climate change, la contrarietà al sistema delle grandi opere inutili e dannose e la necessità di perseguire con forza un cammino di giustizia ambientale. Questa parte iniziale deve essere rappresentativa di tutte le lotte territoriali. Si immagina, ad esempio, che una bandiera per ogni comitato debba essere presente in apertura, per sancire, anche plasticamente, che nessun governo, nessuna forza politica o economica che avallino il sistema delle grandi opere può intestarsi la battaglia per la giustizia climatica. Il seguito del corteo sarà caratterizzato da spezzoni territoriali: l’indicazione dell’assemblea è che il segmento degli spezzoni territoriali sia aperto dal movimento No Tav, non solo come riconoscimento di una lotta pluridecennale, ma anche in virtù della fase decisiva della vertenza contro il treno ad alta velocità. Dall’assemblea emergeva anche l’ipotesi di provare a costruire uno spezzone meridionale, caratterizzato sui temi della predazione di risorse e devastazione dei territori per come esso sono declinati nei sud del nostro paese: nelle prossime settimane andrà verificata questa ipotesi, provando a coordinare le realtà intervenute.
Abbiamo ancora tempo, ma il tempo è adesso: costruiamo dal basso l’uragano che spazzi via il sistema che oggi minaccia la vita di tutt*.
Tratto da a GlobalProject.info