Genova – I coreani non aspettavano altro da quattro anni, ma hanno pazientato nell’ombra. Adesso, secondo le indiscrezioni che circolano negli uffici dei broker, il grande momento sarebbe arrivato. Ci sarebbe – ma l’identità è top secret – un armatore con tanto pelo sullo stomaco da firmare un ordine per una nave che fuori dall’acqua sarebbe più alta della Lanterna di Genova, lunga 460 metri, grande come tre campi da calcio.
In pratica, la nave per il trasporto merci più grande del mondo. Necessaria per realizzare economie di scala, perché sul mare la crisi soffia peggio che a terra, e l’obiettivo degli armatori è quello di riuscire a trasportare il più alto numero possibile di container in un unico viaggio. Proprio così: il gigantismo navale non è dettato né da grandeur, né da altro, se non da una legge di sopravvivenza. I progettisti dei cantieri coreani Stx lo sapevano benissimo già nel 2008, hanno fatto i conti prima degli altri e ora hanno trovato qualcuno disposto a lanciarsi nell’impresa. C’è solo un problema. Una nave come questa, cioè da 20 mila teu (twenty feet equivalent unit, l’unità di misura del container, ma Stx garantisce di poterla costruire grande fino a 22 mila teu) per arrivare in un porto ha bisogno di oltre 18 metri di fondale, gru con un braccio lungo come 25 file di container messi uno a fianco all’altro, una banchina lunga mezzo chilometro. Il porto che in Europa può permettersi queste misure da record? Nessuno.
Nella corsa al gigantismo, iniziata una decina di anni fa sotto la pressione della crescita manifatturiera dell’Estremo Oriente, la compagnia che da sempre ha dettato i tempi è la danese Maersk Line, che infatti al momento ha un ordine per 20 navi da 18 mila teu. Oltre a Maersk, tutte le prime 10 grandi compagnie del settore hanno in corso ordini per navi di ultima generazione. Gli stessi cantieri Stx stanno lavorando su una commessa per alcune unità da 16 mila teu che andranno nella flotta della Zodiac Maritime, compagnia londinese che a sua volta noleggerà queste unità alla Msc di Gian Luigi Aponte.
I “twenty feet equivalent unit”, sono container da 20 piedi, circa sei metri. Oggi il contenitore più diffuso è quello da 40 piedi. In pratica, quello che si vede abitualmente rimorchiato dai Tir sulle autostrade. Dunque, per avere un riferimento dimensionale, possiamo dire che per scaricare una nave da 20 mila teu servono almeno 10 mila tir. Si tratta di una banalizzazione, perché nessuna nave scaricherà mai il suo carico tutto insieme, ma i numeri fanno capire quali sono i problemi che dovranno affrontare i porti per rimanere competitivi nei prossimi anni, e perché già oggi fioriscono in ogni angolo d’Europa (per ragioni storiche e politiche è evidente che in Asia ci sono problemi minori: decide lo Stato) dibattiti e progetti per aggiornare le banchine a questa nuova dimensioni di navi.
Mentre una nave si costruisce in dieci mesi, gli interventi sui porti richiedono anni, e possono costare miliardi (è il caso del nuovo piano regolatore portuale di Genova, dove il solo spostamento della Diga foranea rischia di costare fino a un miliardo di euro, e nonostante), quasi sempre a carico della collettività.
Secondo un recente studio della Association of Ports and Harbors (Iaph), la flotta mondiale delle portacontainer è costituita per l’11% da navi sopra i 10 mila teu di capacità, mentre il portafoglio ordini è costituito per il 47% da unità di questo tipo. Nel 2014, cioè domani, saranno 250 le navi con capacità superiore ai 10 mila teu, mentre altre 400 avranno capacità tra i 7.500 e i 10 mila teu. In pratica, questi due segmenti equivarranno all’intera flotta portacontainer del 2002.
Le portacontainer rappresentano circa un terzo della flotta globale e in pratica trasportano tutto quello che non è materia prima o prodotto per l’industria. La rotta principale si muove dalle fabbriche low-cost dell’Oriente alle grandi catene di distribuzione del mondo occidentale ed è proprio su questa rotta che le compagnie hanno cominciato a mettere progressivamente in servizio le mega-navi. Un fenomeno che non va scambiato per un sintomo di benessere: scendendo produzione e consumi, i servizi si sono ridotti, dando la possibilità di utilizzare meno navi, più grandi, in grado di realizzare economie di scala: il progetto dei coreani, proprio quello per le navi da 22 mila teu, prevede un taglio dei costi di trasporto del 40%.
Tuttavia, unità di questo genere rendono il mercato più volatile, specie in momenti di crisi – e forse non è un caso che proprio quest’estate il mercato non ha retto l’abituale rialzo stagionale dei noli – e soprattutto a terra le infrastrutture faticano a tenere il passo. Per rimanere all’Europa, in questo momento sono – e solo virtualmente – quattro i porti nei quali potrebbero entrare le mega-navi a pieno carico. In Italia c’è Vado Ligure (progetto Maersk da 300 milioni, 150 pubblici, la settimana scorsa hanno aperto i cantieri, ma il finanziamento è ancora atteso, forse arriverà a ottobre); a Barcellona il Muelle Prat che era destinato a un futuro radioso, ma il crollo della banchina nel 2007 ne ritardò il progetto e la struttura è entrata in funzione quest’estate, con gru da 22 file di container, quindi nata vecchia.
Nel Nord Europa aprirà il 21 settembre il JadeWeser Port (950 milioni di euro, tutti pagati dal pubblico) che oggi è la struttura più avanzata per accogliere le mega-navi. Si trova a Wilhelmshaven e ha gru con un braccio da 25 file di container, e minaccia da vicino Amburgo, che invece soffre la mancanza di dragaggi del fiume Elba, lungo il quale di sviluppa tutto il suo porto, oltre agli agguerriti piani di sviluppo della vicina Danzica. C’è infine in fase di realizzazione la maxi-area portuale di Maasvlakte 2 a Rotterdam, che aumenterà del 20% le dimensioni dello scalo. Costi a carico dei terminalisti, inizio delle attività il prossimo anno.
Alberto Quarati