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A Sherwood Festival abbiamo conversato con Stefania Barca, del centro studi sociali dell’Università di Coimbra, intervenuta come relatrice nel dibattito “La sfida dei movimenti climatici”, Alice Dal Gobbo e Salvo Torre, del gruppo di ricerca Politica, Ontologia ed Ecologia. Una conversazione che si è snodata attorno al ruolo storico che vanno assumendo le lotte per la giustizia climatica, alle intersezioni con altri conflitti e alle nuove metodologie di organizzazione.
Partiamo dalle elezioni europee che si sono tenute il 26 maggio e che hanno avuto come immediato riscontro una sorta di ondata del cosiddetto voto verde. Un voto che non può essere considerato una diretta espressione dei movimenti ambientalisti ed ecologisti che si sono mossi negli ultimi mesi e anni. Parzialmente perché molti di questi sono caratterizzati da una radicalità che li vede incompatibili con alcuni programmi istituzionali, dall’altro perché un movimento come Fridays for Future è incompatibile invece sul piano anagrafico. Allo stesso tempo, movimenti con questi, anche quelli più giovanili, hanno sicuramente influenzato il dibattito pubblico e hanno reso egemone talvolta la discussione sul cambiamento climatico. Attraverso questo meccanismo di impatto sulla narrazione mediatica, i movimenti secondo voi hanno la possibilità di soggettivare e politicizzare la società al di là dell’idea standard della rappresentanza? Possono imporre nell’agenda politica alcune riflessioni che riguardano un mutamento sistemico?
Stefania Barca: Siamo dentro una nuova ondata di movimenti e mobilitazioni che non sono rappresentate nella sfera politica, parlamentare e partitica. Penso che il motivo fondamentale di questo sia dovuto al fatto che questi movimenti sono portatori di una visione antisistemica, che è diversa da quella del “capitalismo verde” alla quale siamo abituati dagli anni ’90 in poi, in cui il discorso ecologista si è sviluppato secondo i parametri della “crescita verde” e dello “sviluppo sostenibile”, del “riformare il sistema”.
Secondo me questa è una grande occasione storica; è l’occasione di cambiare il mondo piuttosto che salvarlo, di mettere finalmente in discussione questo modello egemonico e riconoscere che è il capitalismo la causa del problema.
Come i movimenti possono portare avanti questo: io credo che una strategia importante è nel linguaggio. Va adottato un linguaggio che non sia più quello dello sviluppo sostenibile o delle tecnologie pulite, ma quello che parla di giustizia. La lotta contro la crisi climatica è soprattutto una lotta contro l’ingiustizia, contro lo sfruttamento del lavoro e della natura, contro le disuguaglianze. Credo che questa sia un linguaggio che permetterà ai movimenti di fare un passo avanti rispetto al Business as usual.
Contemporaneamente a questo c’è la necessità di unire una serie di lotte che convergano nella lotta contro il cambiamento climatico e che combattono le disuguaglianze di classe, il sessismo, il razzismo e anche lo specismo. Tutte queste lotte fanno parte della lotta contro il sistema capitalista, che è la causa del cambiamento climatico.
Salvo Torre: Penso che l’insieme di movimenti che rientrano nella nuova grande ondata di conflittualità contro la grande crisi ecologica globale siano in grado di darci indicazioni molto forti su un altro aspetto del mutamento globale che sta avvenendo in questi anni. Da un lato è abbastanza evidente che esista un conflitto interno al capitalismo, tra un’area che sostiene la tendenza verso la green economy e un’altra che ancora difende la vecchia economia fossile. Ma, insieme a questo, c’è la vittoria che il capitalismo ha avuto nel conflitto con la democrazia, portando alla dissoluzione dello stato moderno.
Non c’è alcun rapporto tra quel risultato elettorale e i movimenti perché quello che sta avvenendo è un conflitto che – come altri nella nostra storia – sta costruendo lo spazio politico. E questi movimenti questo spazio politico possono costruirlo anche al di là dello schema dei confini nazionali; anzi, non possono essere interessati a quegli schemi perché non ha alcun senso mantenersi all’interno di un vecchio modello dal momento che gli Stati stessi non ne sono più il riferimento.
In questo momento ci sono due grandi movimenti che possono essere considerati globali, per quanto siano articolati in tantissime forme interne: quello per il superamento del patriarcato e quello contro la crisi ecologica. Quello che sta succedendo, e dal mio punto di vista è molto interessante, è che finalmente la maggior parte delle esperienze conflittuali che si muovono all’interno di queste due esperienze sta iniziando a ricercare in maniera sistematica dei legami e un dialogo. Quello che è avvenuto finora nella nostra storia è che in questo tipo di relazione si costruisce lo spazio politico.
Se la globalizzazione ha definito dall’alto lo spazio economico globale, anche in termini di azione entropica del sistema capitalista, questi movimenti sono il luogo dove si può costruire invece uno spazio dal basso. Spazio che necessariamente sarà qualcosa di nuovo e non può essere rapportato al modello della cosiddetta “democrazia borghese” generatosi all’interno dello stato moderno.
Su quel versante c’è un altro aspetto che può essere indicativo. Non è lontano dalla verità dire che questi movimenti hanno avuto un certo peso, che queste tematiche iniziano a costruire consenso, portano il problema a livelli minimali, sopravvivenza contro distruzione. In questo contesto, che ripeto non ha nessuno sbocco per i movimenti, il dibattito ecologista dei partiti verdi è destinato a soppiantare la socialdemocrazia. Il conflitto politico interno diventerà tra la destra e un’area ecologista.
Alice Dal Gobbo: Dal mio punto di vista uno degli aspetti interessanti che differenzia questi movimenti rispetto a quelli ecologici e ambientali che già conosciamo e che li caratterizza come qualcosa di alternativo nel senso più profondo del termine – rendendoli portatori di istante diverse rispetto ai partiti cosiddetti “verdi” e in generale rispetto alla politica istituzionale – è il fatto che essi si rapportano direttamente con i processi di riproduzione e di vita. Se normalmente siamo abituati a pensare il cambiamento, anche quello politico, come un processo che avviene attraverso istituzioni distinte dalla vita stessa, questi movimenti portano il cambiamento dentro i processi di vita.
Questo è molto semplice da capire, perché quello che la crisi ecologica pone è un problema di riproduzione, o meglio di esistenza della vita. La potenzialità dei movimenti ecologici contemporanei, anche se al momento è al tempo stesso la loro debolezza perché li porta a volte ad essere frammentari, è proprio questo partire dalla vita e dai desideri così come li viviamo e così come si modellano sulle esperienze quotidiane di tutte le persone.
Il fatto che, ad esempio, attorno alla produzione di cibo si creino delle esperienze di comunità e di aggregazione diverse, fa ripartire il discorso politico che ci è stato negato da un certo tipo di globalizzazione fatta in un modo completamente esterno alla vita, sulla base di interessi economici di pochi. Proprio in questi spazi di partecipazione possono affacciarsi modi diversi di costruire la nostra vita sociale insieme.
In qualche modo, la sfida dei movimenti a venire sarà quella di allargare questa base perché le potenzialità sono molto forti anche se chi va contro questo processo è, al momento, ancora vincente. Di conseguenza è fondamentale dialogare tra sé per trovare un’identità comune, quantomeno nella ricerca di una tensione politica e non nel doversi omologare a un modello unico, e per acquisire piena consapevolezza della novità di cui sono portatori, la politicizzazione della sfera del vivente.
Sembra esserci, nelle vostre risposte, un fil rouge. Stefania ha parlato della necessità di un linguaggio comune, un codice condiviso che descriva l’azione dei movimenti per la giustizia climatica, Salvo ha citato il superamento dei confini nazionali non solo da parte dei meccanismi del capitale ma anche come accantonamento di un’idea ormai vetusta come quella dello Stato-nazione e Alice ha ripreso questa strada riconoscendo insieme le difficoltà e la necessità di un orizzonte collettivo. Riuscite a vedere nell’ondata verde che ha caratterizzato quest’ultimo anno la scelta strategica di individuare e coltivare un piano comune? Credete che i movimenti che hanno costruito mobilitazioni riconoscano nell’unità un fattore importante e, forse, un modo per raggiungere praticamente una trasversalità e complessività della lotta? La battaglia per la giustizia climatica può rappresentare una sintesi intersezionale?
S.B.: La lotta per la giustizia climatica è necessariamente trans-locale: io la definirei l’internazionalismo del XXI secolo. Ormai sappiamo fin troppo bene che il capitale opera su scala globale anche nel suo generare crisi climatiche ed ecologiche. Uno dei piani su cui questa capacità emerge più evidentemente è la creazione del cosiddetto “debito climatico”, che altro non è se non modo per far scontare a quei popoli e a quei territori che meno di tutti hanno contribuito all’alterazione climatica i prezzi più alti della crisi ambientale. Una crisi che è stata creata dalla globalizzazione del sistema capitalistico a partire dal XV-XVI secolo, con la spoliazione e la rapina delle risorse nei territori colonizzati per alimentare un modello di sviluppo che ha arricchito i centri del nord globale. Ecco perché le battaglie locali, territoriali e regionali che portiamo avanti devono necessariamente essere inserite in questo contesto più ampio.
Questa articolazione tra la sfera locale della battaglia climatica e quella “internazionale” secondo me già esiste ed è stata espressa chiaramente ad esempio a partire da Cochabamba (2010) e da Rio de Janeiro (2012) durante il grande Earth Summit, quando i movimenti per la giustizia climatica hanno espresso un contro-documento intitolato “Un altro futuro è possibile” in replica al report del summit, “Il futuro che vogliamo”. In questa risposta ci sono le linee guide di una varietà di movimenti che condividono tutti – sebbene in misura diversa – una forte articolazione territoriale. Tra questi c’erano anche movimenti indigeni, portatori di un’esperienza irreplicabile proprio perché strettamente legata alle specificità locali, che vede nella difesa del territorio anche la rivendicazione di una sorta di autodeterminazione.
A partire quindi da esperienze di questo tipo si sono sviluppati movimenti globali, che intervengono sulla scena pubblica in occasione ad esempio di tutte le COP, subendo peraltro dure forme di criminalizzazione e repressione, dalle violenze delle forze dell’ordine alla negazione dello spazio urbano, ridisegnato secondo criteri repressivi che stabiliscono veri e propri limiti all’agibilità dei luoghi, come dimostrano le cd. “zone rosse”. Ciò nonostante, questi movimenti hanno di fatto riproposto questa idea alternativa del tipo di futuro desiderato, un futuro che si basa sulla giustizia piuttosto che sullo sviluppo, sulla crescita. Credo che oggi i movimenti come Fridays For Future e Extinction Rebellion, ad esempio, abbiano una grossa potenzialità: stanno già dimostrando di convergere molto di più in questa direzione, invece che di perseguire il mito dello “sviluppo verde”. Penso che sia una grande occasione storica, questa, di poter effettivamente cambiare il discorso e la battaglia ecologista.
S.T.: Sono d’accordo. È un’occasione storica legata da un lato al mutamento della fase, dall’altro però anche all’emergere di una serie di potenzialità uniche. Il capitalismo non ha mai risolto nessuno dei suoi problemi, li ha sempre spostati nel tempo e nello spazio. Siamo arrivati ad un punto in cui, avendo creato uno spazio globale dentro cui sono presenti tutte queste contraddizioni, il capitalismo ha avuto la necessità di aumentare il livello di produzione e riproduzione di confini interni, di linee di esclusione… fino a giungere, nel tentativo di lungo periodo di incorporare le stesse basi del vivente, a minarne i principi, come diceva prima Alice.
È una fase storica, da questo punto di vista, unica, in cui riportare il conflitto a questo livello significa anche non poter in alcun modo eludere la necessità di proporre una società diversa. Un modello radicalmente diverso fin dalle sue stesse basi. Quello che molti movimenti stanno facendo ora è la stessa cosa che ha fatto il movimento operaio alle sue origini, ma nell’arco di tempo intercorso tra queste due fasi sembra non esserci stato praticamente nulla, eccezion fatta forse per il picco dei grandi movimenti anti-sistemici.
Cercare di ricostruire comunità, agire sul piano per esempio del mutuo soccorso, della costruzione di spazi di vita, dell’organizzazione di forme di comunità che sono insieme il percorso verso una proposta e il contenuto della proposta stessa. Personalmente ritengo che questa prospettiva per molti anni non ci sia più stata. Non solo: tanto il livello della comunicazione, quanto l’oggetto della rivendicazione è apparso come slegato dalla realtà dei fatti. Al di là della rappresentazione, l’oggetto del contendere, le dinamiche di conflitto e le proposte di alternativa erano fortemente differenti. Guardando invece, nel loro insieme, a quei movimenti e a quei percorsi che si stanno dando, quel che accade è lampante. È un tentativo complessivo di risposta a quella dinamica di aggressione e di eterno ritorno: è evidente infatti che questa rimane la stessa crisi degli anni Settanta. È una crisi da cui il capitalismo non può uscire se non aumentando in maniera esponenziale il livello di violenza che esercita sia nella devastazione delle basi del vivente, sia in termini di gestione politica. Guardando anche semplicemente l’Europa, e non solo alle esperienze extra-europee, dal mio punto di vista è evidente che i primi passaggi di tutte queste forme di lotta sono sempre passaggi in cui si tende da un lato a rispondere a ciò che manca, ma anche a tentare di costruire percorsi totalmente diversi che partano proprio dall’eliminazione dei processi di valorizzazione, cioè delle basi stesse del capitalismo, e che vadano a incidere e a creare conflitto proprio dove risiede l’elemento centrale del capitalismo, cioè i processi di accumulazione. Interrompere quei processi, agire lì dentro, tentare di proporre società diverse è la strategia condivisa e replicabile che anima, in un orizzonte trans-territoriale, le battaglie per la giustizia climatica.
A.D.G.: Sì, sono assolutamente d’accordo con quello che hanno detto Stefania e Salvo. Dal mio punto di vista, la grande occasione di costruire un movimento che porti un’alternativa radicale e reale al capitalismo risiede anche nella pervasività del capitalismo. Avendo abbracciato sia in estensione che in senso intensivo tutto il pianeta, il capitalismo infatti ha fatto in modo che il conflitto avvenga e debba avvenire necessariamente al di là del piano locale specifico, secondo un modello che effettivamente abbraccia tutto il pianeta in quanto anche essere materiale e vivente.
Ciò ovviamente non è per ricadere nella facile retorica del cambiamento climatico come fatto globale e – quindi – i cui effetti colpiscono in maniera uguale tutti e tutte. È una narrativa cui prestare attenzione: come diceva anche Stefania, è un fatto assodato che il surriscaldamento globale colpisce in modo diverso e può essere affrontato in modo diverso a seconda della capacità e del potere dei vari gruppi sociali. Ciò detto, è naturalmente vero che la crisi ecologica abbia travalicato qualsiasi confine posto dagli esseri umani. Questo dà la possibilità ai movimenti di riconoscere una tensione comune.
Allo stesso tempo, parlando di “fine” della modernità e di superamento delle categorie della modernità stessa, dal mio punto di vista questa rappresenta un’ottima occasione per ripensare anche quelle categorie che, se vogliamo, appartengono più che altro alla filosofia politica. Mi riferisco ad esempio all’idea di giustizia, che forse affrontiamo in modo diverso perché per la prima volta siamo nella condizione – nella necessità! – di dover superare un certo modo di pensarla come concetto astratto, assiomatico. Una giustizia univoca, uguale per tutti gli uomini, così slegata dalla specificità e dalla singolarità dei gruppi sociali. Quest’operazione di astrazione ha di fatto ha permesso in età moderna di proporre una serie di modi di fare o di praticare giustizia che non sono andati a produrre un’uguaglianza effettiva, reale. Anzi, hanno continuato a giustificare per secoli le diseguaglianze. Il fatto che noi siamo portati dalla condizione materiale della crisi a ripensare la concretezza della vita, nello specifico alle sue interrelazioni locale-globale, può essere davvero un mezzo per ridefinire le nostre categorie politiche, possibilmente con uno slittamento in senso radicale del nostro fare politica. Questo sguardo alla concretezza non andrebbe naturalmente applicato solo nei termini specifici del cambiamento del clima, quanto alle ripercussioni sul vivente della crisi ecologica: penso ad esempio alle migrazioni climatiche, che in previsione mobiliteranno decine di milioni di persone nei prossimi decenni. Sarà necessario considerare come organizzare nuove società, ed è evidente che non sarà più possibile stringersi entro confini – ancora una volta – astratti e arbitrari, per collegare invece nuove comunità.