La lotta per la giustizia ambientale e climatica sta diventando uno strumento di ricomposizione per molte delle vertenze che caratterizzano il nostro paese: dalle grandi opere alla devastazione dei territori; dai presidi in difesa della sanità pubblica alle lotte per un welfare universale che non crei più la falsa dicotomia tra diritto alla salute e diritto al lavoro; fino ai movimenti contro la guerra, intesa come regolamento di conti all’interno delle élites dominanti e strumento di predazione di risorse. A ben vedere, tra l’altro, la questione climatica inserisce le mille resistenze quotidiane dei nostri territori in un piano di attivazione globale, che vede movimenti grandi e piccoli nascere spontaneamente e poi diffondersi in tutto il pianeta.
Se questo è vero, allora, perché abbiamo deciso di scrivere un appello con una prospettiva meridionale in vista della grande manifestazione convocata per il 23 marzo? Prima di tutto, perché crediamo che questa prospettiva arricchisca quel grande percorso di attivazione e ricomposizione che sta attraversando il paese con una forza inedita e che ci ha portato a confrontarci, negli ultimi mesi, prima a Venezia, poi a Venaus e infine a Roma: l’assemblea di Napoli sarà infatti solo una delle tappe di un confronto trasversale al paese, in cui stanno trovando valorizzazione e comune politico centinaia di battaglie storiche e di nuove istanze sociali e politiche che oggi chiedono a gran voce un cambio di passo.
Perché parlare da Sud e di Sud?
Non lo facciamo, certo, perché siamo affascinati da false polarizzazioni meramente geografiche, simili a quelle costruite dal leghismo prima che i migranti sostituissero i terroni nella costruzione di un nemico pubblico su cui scaricare le responsabilità politiche della crisi economica. Lo facciamo, però, perché siamo convinti che il potere abbia sempre un’articolazione territoriale. La storia del mezzogiorno italiano è la storia di un territorio sottoposto ad una secolare predazione di risorse e manodopera a vantaggio di grandi imprese settentrionali che – come non bastasse – hanno negli anni appaltato alla criminalità organizzata meridionale lo smaltimento dei rifiuti. Al nord fabbriche e sfruttamento del lavoro degli operai meridionali, a sud discariche e roghi tossici. In questo senso il punto non è contrapporre un ipotetico Sud sottosviluppato ad un generico Nord a capitalismo avanzato: si tratta, invece, di leggere i dispositivi di potere tramite i quali il connubio di grandi imprenditori, ecomafie e politica ha prodotto – contemporaneamente – subordinazione del lavoro e sottrazione selvaggia di risorse.
La categoria di biocidio – presa in prestito dai medici che si sono occupati di alterazioni del DNA umano sottoposto a sostanze tossiche – ci aiuta a nominare esattamente questo problema: al controllo sulla vita imposto ai lavoratori e alle lavoratrici schiacciati dal nostro sistema produttivo, si affianca la messa a morte delle comunità confinate ai margini della produzione. L’altra faccia del controllo biopolitico sul lavoro è la necropolitica del capitalismo armato a Sud.
Diciamolo meglio: il capitalismo è il virus che oggi infetta le nostre comunità; il biocidio è la malattia che si contrae a contatto con quel virus; è lo sviluppo patologico del capitalismo laddove esso sia in diretta contraddizione con la vita; il cambiamento climatico è il più trasversale dei sintomi di questa malattia. E cioè: di fronte al cambiamento climatico non siamo, allo stesso modo, tutti vittime o tutti colpevoli, come se le responsabilità del disastro imminente dipendessero dalla specie umana in generale. Esistono invece pochi che si sono arricchiti e si arricchiscono tramite politiche scellerate di gestione delle risorse del pianeta e tanti che pagano il prezzo di queste politiche.
Ciò non vuol dire, ovviamente, trasferire ogni responsabilità su un piano così elevato da sembrare ultraterreno, come se gli Stati fossero semplici esecutori di un complotto mondiale per l’annientamento della vita sulla terra. Anzi. I primi responsabili cui andare a chiedere conto sono, in questo senso, gli uomini al governo del nostro Paese: è tutta politica la decisione di non disincentivare politiche inquinanti e pericolose perché troppi interessi economici sono in gioco. Sono i governi, infatti, a decidere le priorità d’investimento nel paese, ma possiamo essere noi a cambiare la scala gerarchica dettata dalle grandi lobby, facendo rete, lottando e resistendo dal basso.
Ogni giorno chi siede in parlamento porta avanti compromessi al ribasso tra la tutela del diritto alla salute e la salvaguardia dell’ecosistema e il mercato, a tutto vantaggio dei gruppi d’interesse locale o delle grandi multinazionali. Specificamente su questo è oggi possibile far ripartire l’opposizione al governo gialloverde, lasciando al palo gli imbarazzanti tentativi del PD che – invece – attacca l’esecutivo perché non fa abbastanza per garantire le lobby ecocide del paese (Tav, Tap, Ilva Muos, trivelle, multinazionali dell’acqua, solo per citarne alcune). Nonostante la persistenza di tecnocrazia prezzolate e presunti studi neutrali sui ‘costi e benefici’ delle politiche ambientali, le scelte relative all’energia e al clima sono tutte politiche. La direzione intrapresa dal governo in questo senso è molto chiara: stiamo assistendo, da mesi, al sistematico tradimento di tutte le promesse d’ispirazione ecologista dei 5 stelle, che hanno deciso di sacrificare le rivendicazioni storiche dei comitati sul tavolo di compatibilità con la Lega Nord.
La mobilitazione simultanea di tutti i percorsi territoriali a tutela dell’ambiente e della salute è oggi una necessità per chiunque ambisca a ricostruire l’orizzonte di un altro mondo possibile. C’è ancora tempo, ma è questo il tempo: le false promesse, l’appello a vincoli inderogabili o le presunte emergenze non possono più avere cittadinanza nel dibattito pubblico relativo al clima e all’ambiente.
In questo senso, come comitati meridionali, estendiamo questo appello a tutte le realtà che hanno aderito o stanno aderendo al percorso che porterà al 23 marzo. Comitati, movimenti, associazioni, medici di base, ricercatori, studiosi: ognuno deve poter dare il suo prezioso contributo alla ricomposizione di una nuova soggettività capace di ribaltare i rapporti di forza e sfidare la controparte attraverso le mobilitazioni territoriali e nazionali e definendo e praticando alternative credibili e sostenibili, L’orizzonte a cui guardare è l’autogoverno dei territorio e la capacità di interrogarsi costantemente su cosa, come, dove e per chi produrre.
Ci vediamo il 3 Marzo a Napoli per l’assemblea nazionale verso la marcia per il clima e la giustizia ambientale del 23 a Roma.